mercoledì 4 settembre 2024

Verso un'Europa Nero-Bruna?

 



Dopo una primavera ed un'estate di elezioni, ed in vista di un autunno che si preannuncia altrettanto gravido di scelte politiche, alcune costanti stanno emergendo all'interno del Vecchio Continente e forse anche altrove.

Prima fu l'Italia (di nuovo!) ad ammantare di nero il proprio Governo. Il processo berlusconiano di sdoganare l'estrema Destra per poter arrivare a governare il Paese si è concluso con l'estrema Destra al potere e i liberalmoderati in posizione ancillare. Li volevano controllare, ora sono ai loro ordini (di nuovo!). Come buttare al macero un secolo di storia politica.

Poi toccò alla Francia. Il terremoto politico avvenuto con le scorse elezioni europee non lascia molti dubbi: le forze estremiste di una Destra nazionalpopulista sono al primo posto nel Paese e a poco serve il cordone sanitario che ancora una volta gli si è serrato attorno per impedirne l'accesso ai palazzi del potere. Prima o poi verrà eroso e allora non ci sarà più alcun ostacolo a frapporsi tra queste forze e il Governo del Paese

Infine arrivò la Germania: nelle ultime elezioni l'estrema Destra era sempre in crescita, ma stavolta, in Turingia e Sassonia, ha  fatto il botto, diventando il primo partito in entrambi i Land. A parole nessuno vuole allearsi con loro, ma tra nuovi partiti rossobruni e parole d'ordine dei moderati che si avvicinano pericolosamente a quelle dell'estrema Destra, chi può dire se nella pratica non uscirà qualche alleanza contronatura?

Il tutto nel bel mezzo del processo di formazione della nuova Commissione Europea, di due guerre ai confini dell'Unione (Ucraina-Russia e Israele-Palestina) e in vista di un'elezione presidenziale statunitense assai delicata. Che l'UE fosse debole nelle sue Istituzioni centrali è risaputo, ma che ad essa si aggiungesse anche la debolezza dei due Paesi principali è una novità non trascurabile, anzi! La presidenza Macron era iniziata al Palais du Louvre, ma rischia di concludersi in una nuova Place de la Concorde, mentre il Governo del Cancelliere Scholz rischia di diventare il più breve e scialbo della Germania post 1945.

Urge correre ai ripari. Calenda nei giorni scorsi ha fatto una breve analisi di quanto avvenuto in Germania (ma può benissimo valere per Francia e Italia) ponendo l'accento sul futuro fosco che molti cittadini percepiscono e collegando a questa percezione il voto alle Destre estreme. La discussione che ne è seguita ha posto in evidenza come probabilmente la gestione politica delle forze moderate (di Destra, di Centro e di Sinistra) sia stata fallace e incapace di affrontare i veri problemi delle persone. Dalla disillusione si è quindi passati alla contestazione ed infine a cedere alle sirene di partiti che sicuramente non sanno offrire soluzioni, ma capri espiatori (gli immigrati soprattutto) facili da individuare e una insieme di valori in cui l'egoismo e il disinteresse verso l'altro stanno ai vertici.

Ciò che dovrebbe far rabbrividire di tutto ciò è che queste posizioni non sono per nulla diverse da quelle dei partiti nazionalisti di un secolo fa; anzi, ne propugnano esattamente le stesse idee e gli stessi "valori". Stupisce che molti non se ne accorgano e li votino: se i presupposti sono gli stessi, difficilmente la conclusione sarà differente!

Tuttavia, per quanto difficile, è compito degli altri partiti democratici rendersi conto del disagio che hanno creato e cambiare le loro proposte politiche, non inseguendo questi estremisti (come purtroppo qualche partito sta già facendo, commettendo lo stesso errore dei liberali di un secolo fa), ma percorrendo con coraggio nuove vie che rimettano al centro la persona e i suoi bisogni. E se questo vuol dire qualche punto di deficit in più o una tassa in più a qualche categoria amica abbiano il coraggio di farlo. Se Parigi - come ci ricorda Enrico di Navarra - val bene una messa, la nostra Democrazia val bene qualche sacrificio (per chi può ancora permettersi di farli).


lunedì 3 giugno 2024

Democrazia e Rappresentanza

 



Il sogno democratico è nato ormai 25 secoli fa ai piedi del Licabetto, in Attica. Quella Democrazia, imperfetta e assolutamente limitata, era diretta, ovvero i cittadini si occupavano direttamente dell'amministrazione dello Stato. Diceva Pericle: "Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi, per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende la proprie faccende private. Ma in nessun caso si avvale delle pubbliche cariche per risolvere le questioni private." Probabilmente parole he esprimono più un auspicio che la realtà (è evidente che ad Atene qualcuno si è fatto i propri interessi, altro che quelli comuni). Tuttavia quell'esperienza, finita drammaticamente prima con la sconfitta ateniese contro Sparta e poi con le successive conquiste macedone e romana, rimane una luce che dall'antichità arriva fino a noi come un faro nella notte. 

Le Democrazie attuali sono molto differenti da quella ateniese. Innanzitutto sono rappresentative: il Parlamento viene eletto a suffragio universale diretto dai cittadini (maggiorenni) e ha il compito legiferare a nome del Popolo cui appartiene il fondamento della sovranità. Sono quindi Democrazie che in qualche modo delegano al Parlamento la cura della res-pubblica. Ciò che diviene importante in questo caso è il legame che unisce cittadini e parlamentari: quando quest'ultimi rimangono fedeli a quanto espresso dal corpo elettorale e quando lo tradiscono?

Una possibile soluzione per cercare di mantenere in linea scelte elettorali e Parlamento, attuata in forma assai limitata ad esempio in Portogallo (e in pochi altri Paesi) è quella del vincolo di mandato, ovvero un istituto giuridico che prevede che gli eletti siano immediatamente responsabili nei confronti degli elettori, dai quali possono essere revocati (revoca degli eletti) anche in corso di mandato se si distanziano, con il loro comportamento, dal programma con il quale si sono presentati. La piena attuazione di questo tipo di mandato imperativo è propria degli Stati preda di regimi autoritari che di fatto negano i principi stessi su cui si basa la Democrazia. Fin dalla Rivoluzione francese infatti questo istituto è stato visto come segno di oppressione: chi viene eletto rappresenta tutta la nazione, non una parte di essa, rappresenta la conseguenza teorica dell'attribuzione al popolo (cioè ad una pluralità) della sovranità che era precedentemente attribuita ad un uomo solo, il monarca considerando quindi ogni singolo eletto dal popolo, semplicemente in quanto tale il rappresentante della nazione-popolo nel suo insieme, e quindi il depositario della sua intera volontà sovrana per cui egli deve necessariamente rappresentare, altrettanto simbolicamente, tutto il popolo nella sua interezza.

La Costituzione italiana afferma che «Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (art.67), ovvero che i parlamentari svolgono il loro incarico senza obblighi nei confronti di partiti, programmi elettorali o dei cittadini stessi. L’eletto quindi non ha nessun vincolo giuridico nei confronti degli elettori, ma solo una responsabilità politica. Una libertà di azione necessaria per poter svolgere le proprie funzioni senza pressioni e/o ricatti esterni. Nei regolamenti di Camera e Senato l’assenza di vincolo di mandato è declinata nella libertà per singoli eletti di intervenire in disaccordo con il proprio gruppo di appartenenza. Piena garanzia dell'eletto quindi, ma dove si trova la garanzia del rispetto dell'elettorato? I sistemi democratici, considerando la stabilità delle Istituzioni un valore intrinseco, vi hanno affiancato due assiomi, ovvero che l'eletto operi nell'interesse dell'elettore a sua discrezione, e che possa essere sfiduciato soltanto a fine mandato, mediante la non rielezione da parte del corpo elettorale, che censurerebbe così il comportamento dissociato rispetto al programma da lui enunciato nella precedente elezione.

Forse troppa utopia? Probabilmente. Tuttavia al momento non abbiamo ancora trovato una modalità alternativa e migliore per cercare di garantire i diritti, le libertà e i principi propri della Democrazia. Rimane il fatto che la quotidianità può metterci davanti a situazioni in cui gli eletti disattendono quanto avevano promesso e che i cittadini possano sentirsi traditi dai propri rappresentanti. La Democrazia è quindi una forma di governo imperfetta, sicuramente meno imperfetta di altre forme, ma anch'essa ha i suoi limiti. Sta a noi cittadini vigilare e scegliere bene i nostri rappresentanti, non guardando al nostro personale interesse, ma al bene comune. Ancora utopia? Forse, ma la Speranza è l'ultima a morire.   

sabato 4 maggio 2024

L'Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro

 



Nella settimana appena trascorsa abbiamo celebrato la Festa dei lavoratori. Alcuni potranno chiedersi cosa ci sia da festeggiare, in un momento storico in cui guerre e crisi minacciano l'occupazione e dove anche chi lavora a volte non riesce a vivere dignitosamente. Incertezza, sfiducia e delusione sono sentimenti comuni a molti cittadini e sembra che la politica non si curi di questo disagio presente nella società. 

Forse rileggere quanto la nostra Costituzione dice sul lavoro può essere un esercizio utile a recuperare l'importanza e la centralità che questo tema dovrebbe avere nella politica, così come l'ha nella vita di ciascuno di noi.

Il primo articolo della Costituzione definisce il lavoro come fondamento della Repubblica. Ma non è l'unico articolo che parla del lavoro; all'articolo 4 afferma: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società". E ancora, agli articoli 35 e 37, continua: "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori [...] La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione.  La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.  La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione".

Parole importanti che tracciano una strada attraverso la quale la legislazione ordinaria dovrebbe muoversi al fine di raggiungere la piena realizzazione di quanto viene espresso in questi articoli. Probabilmente vi viene tratteggiato un mondo ideale, lontano dalla realtà, ma l'intento della Costituzione è proprio quello di esprimere alti ideali e di mostrare la bellezza di quel Bene Comune a cui tutti dovremmo tendere. Un mondo cui il Legislatore dovrebbe dare corpo, al di là delle idee politiche di riferimento di questa o quella parte. 

Provando ad analizzare brevemente il contenuto di questi articoli, emerge fin dall'inizio la centralità del lavoro inteso sia come attività manuale che intellettuale. La sua importanza sta nel fatto che senza di esso risulta impossibile dare prospettive ai cittadini che dal loro lavoro traggono la principale forma di sostentamento.  

A tal proposito l'articolo 4 approfondisce la tematica: esso ricorda come ogni cittadino debba svolgere un lavoro che concorra al progresso della società. Sembra riecheggiare quella frase infingarda che accoglieva i prigionieri internati nei campi di concentramento e di lavoro del regime nazista: 'Il lavoro rende liberi'. In realtà il contesto è chiaramente del tutto differente: la vera libertà che il lavoro garantisce è quella di poter provvedere a sé stessi (e alla propria famiglia) in modo legittimo, potendo scegliere quale attività svolgere ed è compito dello Stato mettere in atto delle politiche sociali tali da garantire questo diritto a tutti i cittadini affinché possano vivere in modo dignitoso. Ma il lavoro non è solo rivolto  sostentamento dell'individuo, ma anche al progresso della società: attraverso  le proprie attività i cittadini concorrono al progresso del Paese, al suo miglioramento, alla sua crescita (economica, intellettuale, spirituale); non ci sono quindi attività umili e altre prestigiose: qualsiasi lavoro è indispensabile per lo sviluppo dello Stato. La Repubblica non è (non dovrebbe essere) più uno stato classista!

A prova di ciò, l'art. 35 dichiara chiaramente una forte affermazione del principio di tutela del lavoro impegnando la Repubblica a curare la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori per garantire l’aspirazione di ciascuno "di raggiungere la preparazione e la competenza necessarie a svolgere un’attività consona alle proprie possibilità e aspirazioni". Uno Stato, quindi, che si prende cura dei propri cittadini, che non lascia fare al Mercato e alla sua mano invisibile e che cerca di creare le condizioni favorevoli affinché ciascuno possa trovare il suo posto nella società. Di contro, ovviamente, siccome lo Stato cresce se tutti contribuiscono con la propria attività in questa direzione, è dovere di tutti i cittadini rispettare le norme che disciplinano il mondo del lavoro. In questo modo la dimensione individuale non annulla quella collettiva ma le due dimensioni si integrano, nella convinzione che tra il singolo e la collettività esista un legame inscindibile.

Infine, l'articolo 37 ha permesso l’approvazione di una legislazione volta ad affermare la piena uguaglianza formale tra lavoratori e lavoratrici e costruendo una politica tesa al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale (ovvero, effettiva), attenuando un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile. Quanto ai minori, la legislazione vieta il lavoro dei bambini (fino ai quindici anni di età) e consente quello degli adolescenti (fra i 15 e i 18 anni), purché il minore sia riconosciuto idoneo all’attività lavorativa mediante un esame medico e gli sia garantita la frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo anno di età.

Vedere la distanza tra queste parole e la realtà può contribuire a quel senso di smarrimento di cui parlavo all'inizio, ma non possiamo accontentarci di una politica che abdica ad una delle sue principali funzioni: è in gioco la nostra dignità e la stessa tenuta del Paese, elementi troppo importanti per essere relegati in secondo piano o addirittura dimenticati.

martedì 30 aprile 2024

La Liberazione, festa di tutti

 


L'ultima settimana di aprile e l'inizio del mese di maggio sono un periodo un po' particolare, ricorrono infatti due importanti festività civili che caratterizzano la nostra Repubblica democratica: la festa della liberazione celebrata il 25 aprile e la festa del lavoro che ricorre il primo maggio.

Da sempre il 25 aprile è stato vissuto da una parte del panorama politico italiano e dai cittadini che da essa si sentono rappresentati come una festività divisiva. Quasi che fosse un momento celebrativo solo dei partigiani, identificati in blocco con il partito comunista. Una festa perciò da cui la Destra è di fatto esclusa, anzi, è una festa da intendersi contro la Destra.

Ovviamente nulla di più sbagliato. E i motivi sono assolutamente evidenti: tra le varie compagini partigiane presenti nel nostro Paese si ricordano gruppi afferenti a diversi pensieri politici, ovvero comunisti, azionisti, monarchici, socialisti, democristiani, liberali, repubblicani e anarchici. Una varietà di appartenenze che ben esprime come ridurre la Resistenza a qualcosa di Sinistra sia semplicemente assurdo. Non solo, nella II guerra mondiale, a scontrarsi con i regimi fascisti non fu solo l'Unione Sovietica comunista, ma la Francia, la Gran Bretagna e gli USA guidati da governi non proprio identificabili con correnti di pensiero di Sinistra. Ciò significa che se una parte della Destra italiana si sente esclusa dalla Festa della Liberazione, vuol dire che probabilmente non si ritrova all'interno di una delle componenti che a quella liberazione hanno contribuito.

Anche il dirsi antifascisti non significa dirsi comunisti o di Sinistra: l'antifascismo è semplicemente la base da cui è nata la nostra Democrazia. La Repubblica italiana è sorta dalle macerie della II guerra mondiale e del regime fascista che per più di vent'anni ha guidato il Paese imponendo la propria visione in modo antidemocratico. Essere antifascista in Italia significa essere democratico, condividere i principi fondamentali su cui si fonda il nostro vivere assieme. Nulla di più, ma nulla di meno! 

In queste settimane è venuto a galla un nuovo termine: definirsi afascisti. Un'alternativa di Destra all'antifascismo. Lasciando da parte una certa dose di ridicolaggine rispetto a questa dinamica (da asilo infantile) è singolare che sia proprio il prefisso 'anti' ad essere problematica, meglio una generica α privativa che non richiede una partecipazione e una adesione attiva. Sì, perché definirsi antifascisti richiede di adoperarsi in prima persona - ciascuno secondo le proprie capacità e in base agli ambienti di vita - affinché certe dinamiche limitative dell'espressione personale di ognuno non si ripresentino. Essere afascisti invece ci permette il lusso di rimanere in panciolle mentre il mondo attorno a noi brucia. Ed è quello che ha fatto la borghesia liberale un secolo fa.

Al termine di un'epoca di grandi sconvolgimenti (che idealmente comprende tutto il lungo '800 partendo dalla Rivoluzione francese e concludendosi con la I guerra mondiale) e davanti alle conseguenze disastrose ed impreviste del conflitto mondiale, la borghesia e gli ambienti liberali pensarono di trovare nelle squadre fasciste l'antidoto al diffondersi del comunismo nell'Europa occidentale. Credevano, sbagliandosi, di poter governare il fenomeno e che si sarebbe sgonfiato nel momento in cui si sarebbe esaurita la spinta socialista. Invece a sparire furono proprio le democrazie liberali fagocitate prima dalla diffusione dei fascismi in gran parte del Continente e poi dall'orrore della II guerra mondiale.

Il mondo uscito dal secondo conflitto mondiale è radicalmente diverso da quello che ci è entrato: la partecipazione di massa a quella immane disavventura ha dato nuova coscienza a tutte le componenti sociali e ha portato alla nascita di repubbliche democratiche fondate su principi radicalmente diversi dai regimi liberali di inizio '900. Il suffragio universale, l'uguaglianza, la libertà (di stampa, di pensiero, di associazione...) i diritti civili divennero un patrimonio comune a cui difficilmente potremmo rinunciare. Ma serve rimanere vigili: essere diventati cittadini partecipi della gestione del Paese ci richiede di agire con coscienza, in stile antifascista, a protezione della nostra Democrazia, il nostro bene più grande e prezioso. 




domenica 21 aprile 2024

Pecunia non olet... forse...

 


Nelle ultime settimane diversi scandali giudiziari hanno sconvolto la politica in diverse regioni italiane. Alcuni politici locali sono finiti sotto inchiesta per aver tenuto comportamenti al di fuori della legge in occasione di passate elezioni. Nulla di nuovo: sono almeno 40 anni che ciclicamente emergono questi fatti assai poco edificanti nella classe politica del nostro Paese. Tuttavia, assistendo al dibattito che in questi giorni si è venuto a creare, credo che un punto meriti maggiore attenzione. 

La riflessione, nei vari talkshow politici, si è concentrata principalmente su due aspetti: il primo relativo alla selezione della classe dirigente che i vari partiti operano al loro interno e, collegato a questo, i fatti di cronaca giudiziaria che hanno portato diversi politici a dover fare un passo indietro o verso le patrie galere. Manca però una riflessione sui fatti in sé stessi: la Magistratura indaga sui singoli fatti e cerca di giungere ad una ricostruzione il più fedele possibile della realtà per poter giudicare se sia stato compiuto un illecito o meno. Ma non spetta ad essa offrire contestualmente una riflessione complessiva sul significato di tali reati all'interno della nostra democrazia, questo compete alla politica. 

Volendo provare a dare un senso a quello che emerge, credo sia importante non fermarsi al solito dito, quanto alzare lo sguardo e osservare la luna. Uno degli aspetti emersi (non nuovo, a dire il vero) è stato quello che alcuni politici offrivano 50 euro in cambio del voto. Che significato dare a questo fenomeno? Probabilmente una parte di questi elettori si trova in situazioni di ristrettezza tali che quella misera somma può fare la differenza, ma altri sicuramente avranno pensato che 50 euro per mettere una croce su un mone in fin dei conti non era poi così male. Ecco allora che quella somma è il valore che questi elettori danno alla nostra democrazia: uno spettacolo così indecente che per andarlo a vedere sono i protagonisti a pagare gli spettatori e non viceversa! 

Ma qual è la differenza tra questi soldi offerti agli elettori o accordi sul numero di farmacie di un paesello siciliano e le promesse elettorali che ogni partito fa? veramente c'è una differenza sostanziale tra la promessa di non toccare le concessioni balneari o le licenze dei tassisti o il fatto di introdurre il reddito di cittadinanza o nuove assunzioni a pochi giorni dalle elezioni e gli illeciti commessi dai politici finiti sotto indagine in questi giorni? I manifesti elettorali della DC che recitavano "Dio ti vede, Stalin  no" con il loro ricatto morale erano più innocenti dei 50 euro promessi oggi? Certo, non mi sfugge la differenza sostanziale che un conto è fare una promessa pubblicamente e muoversi alla luce del sole, altro muoversi nell'ombra e tramare sotto banco per acquisire pacchetti di voti. Ma fino a che punto i politici sono pronti a spingersi pur di vincere?

Immaginare che quanti si dedicano alla Res Pubblica siano disinteressati e lo facciano esclusivamente per il Bene Comune è una pia illusione. Questo non significa che la politica sia fatta da uomini e donne privi di scrupoli, semplicemente un conto è l'ideale cui la maggioranza di essi tende, altro quello che poi realmente riescono a fare, pagando dazio alla loro umanità. Nessuno di essi si candida per perdere! Cercare dei modi per vincere ammaliando gli elettori fa parte del gioco politico e a volte si rischia. I responsabili dei vari partiti sanno che affidarsi a delle personalità che attirano moltissime preferenze probabilmente li esporrà al rischio di trovarsi poi invischiati in giochi poco chiari; allora perché lo fanno? Proprio per cercare di superare gli avversari, perché sono convinti che il loro programma sia migliore di quello degli avversari e che il cedere a qualche personaggio chiacchierato non inficerà la validità del loro progetto politico. 

Nulla di più sbagliato. Questo tipo di candidature infatti rischia di far perdere di credibilità la politica nel suo insieme: che valore può avere una lista in cui sono presenti persone che hanno cambiato ripetutamente casacca senza nessuna apparente motivazione? Diventa evidente che l'unico motivo per cui sono inseriti nelle liste è la loro capacità di attrarre voti e preferenze. Ma che fine fa allora la progettualità politica e l'adesione ad un programma di governo? Ovviamente passano in secondo piano e questo gli elettori lo capiscono. Allora tornano buoni i 50 euro: se devo andare a votare per qualcuno che già so non farà cambiare nulla nella mia vita, almeno che ne abbia un beneficio, piccolo se vogliamo, ma meglio di niente.

Questo è un problema che da sempre si riscontra nelle democrazie: fin dall'antichità la necessità di muovere masse di cittadini elettori ha solleticato la fantasia dei vari capipartito. Delazione, corruzione, accordi sottobanco, voltafaccia e cambi di casacca, promesse (poi puntualmente deluse e reiterate) fanno parte di quella che ancor'oggi rimane la migliore forma di governo che conosciamo. Tuttavia non possiamo e non dobbiamo come cittadini rassegnarci a questo modo di fare. Dobbiamo pretendere la massima correttezza possibile da quanti si propongono per gestire la cosa pubblica. E abbiamo il dovere di partecipare in prima persona alla politica, solo così potremmo limitare l'influenza di questi figuri alquanto discutibili e rendere la loro influenza inutile.
        

venerdì 19 aprile 2024

Idealismo e realtà

 


Nei giorni scorsi, guardando un TG, ho visto un servizio che presentava l'apertura di una mostra dedicata a Giovanni Gentile, filosofo neoidealista italiano, padre dell'omonima riforma scolastica del 1923 e membro convinto del Partito Fascista. Non è mia intenzione in questo frangente discettare sul profilo di colui che resta una delle principali figure filosofiche del '900 nel nostro Paese, ma mi offre l'occasione di parlare di scuola. Il servizio infatti chiudeva con un accenno alla qualità della scuola italiana, a seguito della riforma gentiliana.

L'intervento di Gentile fu una riforma organica del sistema scolastico italiano, rimasto in vigore in maniera immutata fino al al 1962 (ben oltre quindi l'avvento della Repubblica e del ritorno della democrazia in Italia). I principi dai quali mosse tale intervento furono antidemocratici, antimoderni ed elitari, soprattutto per quanto riguarda l'istruzione superiore: essa doveva essere riservata esclusivamente agli studenti migliori o appartenenti a famiglie facoltose (la qual cosa spesso coincideva, visto che l'assoluta maggioranza degli studenti che proseguivano gli studi apparteneva a famiglie agiate, indipendentemente dalle capacità personali).

Due frasi del filosofo-ministro possono chiarire meglio il concetto: «Gli studi secondari sono di lor natura aristocratici, nell'ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori; perché preparano agli studi disinteressati scientifici; i quali non possono spettare se non a quei pochi, cui l'ingegno destina di fatto, o il censo e l'affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de' più alti ideali umani». E ancora: «Alla domanda, un po' irosa: - Come si fa a trovar posto per tutti gli alunni? - io rispondo: - Non si deve trovar posto per tutti. - E mi spiego. La riforma tende proprio a questo: a ridurre la popolazione scolastica». I valori propugnati agli scolari erano i seguenti: rispetto della legge, ordine, disciplina e obbedienza all'autorità dello Stato (ovviamente allo Stato totalitario Fascista).

Ovviamente questi concetti sono ad oggi assolutamente incondivisibili e insostenibili. Ma cosa rimane di questa riforma nel profondo dell'animo di noi italiani? Perché se da un lato quasi nulla rimane di quanto operato da Gentile nella scuola, dall'altro probabilmente abbiamo interiorizzato alcuni principi che ancora oggi - 100 anni dopo - sono duri a morire e ad essere superati. Come mai, ad esempio, consideriamo ancora oggi l'istruzione liceale superiore a tutte le altre possibili scuole superiori? E perché tra i licei consideriamo ancora il Classico come il liceo per antonomasia? Come mai gli Istituti Professionali sono diventati il rifugio/ripiego di tutti quegli studenti che gli altri Istituti di Istruzione Superiore non riescono a gestire? E cosa dire dei CFP triennali? E chi ha deciso che alcune discipline (Greco e Matematica ad esempio) sono più nobili di altre? Qual è il senso di aver snaturato alcuni percorsi liceali per piegarli a logiche che non gli appartengono (si pensi ad esempio al liceo sportivo o al liceo scientifico tecnologico)? Potrei continuare, ma credo sia chiaro il punto.

La scuola, ad oggi, si trova a vivere un momento di grande travaglio e di difficoltà nello stare al passo con le esigenze del mondo contemporaneo e, in una società che sembra ragionare secondo uno schema binario, può sembrare che abbia perso parte della sua centralità. Bisogna allora allontanarsi dal contingente e guardare il tutto in prospettiva: compito della scuola è quello di concorrere alla formazione dell'uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione. A partire da questo, l'articolo 3 della Costituzione afferma che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Garantire il pieno sviluppo della persona umana è uno dei compiti della Repubblica e la scuola è lo strumento primario attraverso il quale questo può avvenire. Per tutti. Siamo lontani anni luce dal pensiero di Gentile.

Ma la realtà non è così facile: cosa vuol dire pieno sviluppo della persona? Come la scuola può divenire un valido aiuto in questo? Ha ancora senso la scuola così com'è? La scuola è pronta ad affrontare le sfide dell'uomo del XXI secolo? Come possiamo evitare che la scuola diventi un percorso di sofferenza per alcuni dei nostri studenti? La scuola gentiliana ha avuto sicuramente alcuni meriti e aspetti positivi, tuttavia non può essere un punto di riferimento per la scuola del presente e - soprattutto - del futuro. Per cui guardare al passato non serve a molto, se non ad escludere percorsi già vissuti. Serve una nuova riforma che trasformi in modo organico tutto il sistema scolastico italiano (che dopo le molte riforme parziali delle ultime legislature è assai sconquassato e contradditorio al suo interno), ma al momento non si vede all'orizzonte un simile intento. Nel mentre, probabilmente, il primo passo che potremmo fare noi cittadini sarebbe quello di cominciare a smettere di fare una distinzione valoriale tra i vari percorsi di scuola secondaria e vederli come strade attraverso le quali ciascun ragazzo comincia a scoprire e ad esprimere le proprie capacità, abilità e potenzialità. Un primo, piccolo passo che avrebbe il pregio di superare tanti luoghi comuni che spesso sono il primo ostacolo che gli studenti devono superare, prima ancora di iniziare il loro percorso.

lunedì 15 aprile 2024

Homo Homini Lupus

 


Per formazione e indole sono sempre stato portato a pensare all'essere umano come buono e rivolto naturalmente al bene, tuttavia gli ultimi anni mi hanno portato a rivedere questa idea e ad approdare ad un'immagine meno lusinghiera.

All'inizio dell'epidemia di covid i balconi si sono riempiti di striscioni con frasi che ci ricordavano che ne saremmo usciti migliori; in quel clima surreale pareva emergere il volto più umano di molti di noi: quella disponibilità a condividere nonostante le restrizioni, ad alleviare la durezza del lockdown sembravano confermare che avremo superato quella bruttissima esperienza grazie all'affinamento delle nostre migliori qualità. Anche il tentativo delle autorità di sottolineare come la distanza fisica necessaria non fosse lontananza emotiva e relazionale dall'altro indicava proprio che il legame che ci tiene insieme era più forte di qualsiasi male. Invece non è andata proprio così...

Gli striscioni sono sbiaditi, i balconi sono tornati al loro consueto mutismo e tutti noi ci siamo fatti attanagliare dalla paura di quella pandemia che sembrava non voler lasciarci tornare alla nostra vita. In questa condizione ci siamo persi la parte migliore di noi, o meglio, abbiamo gettato quella maschera che solitamente per convenienza civile indossavamo e abbiamo rivelato il nostro vero volto. L'astio e quasi l'odio rivolto verso coloro che hanno faticato ad adeguarsi e a comprendere le regole in vigore durante la pandemia è stato il primo campanello d'allarme: in quella situazione dividersi tra provax e novax e litigare tra noi, perdendo di vista che in ogni caso eravamo persone, è stato deleterio e ha logorato il tessuto sociale più della pandemia stessa. 

Ciò che è emerso in modo dirompente è stato l'istinto di conservazione proprio di ciascuno di noi: il vaccino è stato visto come la salvezza e la soluzione ad ogni male e, conseguentemente, coloro che erano contrari erano visti come gli untori e nemici pubblici. Viceversa coloro che erano contrari al vaccino hanno visto tutte quelle regole come un'indebita e intollerabile intromissione dello Stato nelle loro vite e i provax come dei servi del sistema da cui rifuggire con orrore. Ognuno aveva qualcosa che voleva preservare ed era pronto a difenderlo con le unghie e col coltello tra i denti. 

L'effetto successivo, complice il lockdown, è stata una certa involuzione dei rapporti intersoggettivi e sociali: ci siamo accorti che in qualche modo riusciamo a bastare a noi stessi e che l'altro ci richiede uno sforzo di comprensione che probabilmente ad oggi non siamo più così sicuri di voler fare. Il fatto che molte realtà sociali si siano trovate in sofferenza per la mancanza di partecipazione attiva a seguito del periodo pandemico è un'amara realtà che ci mostra come un certo senso di autosufficienza si sia diffuso nel corpo sociale. 

Se a tutto questo aggiungiamo le notizie che ci arrivano quasi quotidianamente dalla cronaca nera o dai vari scenari di crisi e di guerra internazionali comprendiamo bene come quel 'ne usciremo migliori' sia stato un puro auspicio andato fin troppo presto disatteso.

Allora, aveva ragione Hobbes quando affermava che homo homini lupus? Non credo, ritengo piuttosto che questi anni ci abbiano fatto fare un passo in avanti in quel percorso che l'età contemporanea aveva già iniziato, ovvero all'assolutizzazione dell'Io e alla contemporanea sparizione del Noi per privilegiare un Tu/Voi da intendersi non come fratello o compagno, quanto piuttosto come qualcuno da cui guardarsi e da intendere come un individuo a me concorrente.

Quali possono essere le soluzioni a questa deriva? Francamente non ne vedo molte; la politica - che in un sistema democratico dovrebbe essere la prima barriera contro questo sbandamento - non ha né la forze né la credibilità per sostenere una riscossa della dimensione sociale e comunitaria, anzi alcuni tra i partiti più importanti svolgono ruolo da capofila nella diffusione di una mentalità sempre più egoistica ed egocentrica. Rimane quindi il mondo dell'associazionismo, ultimo baluardo che ci aiuta a vedere nuovamente l'altro come un Tu/Voi che non vuole togliere nulla a noi, quanto piuttosto offrirci la ricchezza della sua persona, in una comunione di persone, di ideali e di valori allo scopo di costruire un mondo migliore per tutti.

Forse anche questa mia ultima speranza è un modo per indorare un mondo che in realtà è più crudo di quanto voglia ammettere, ma non sono ancora pronto ad arrendermi ad un mondo triste, grigio e accigliato dove egoismo e egocentrismo sono i valori fondanti e più alti da vivere e propugnare.

Verso un'Europa Nero-Bruna?

  Dopo una primavera ed un'estate di elezioni, ed in vista di un autunno che si preannuncia altrettanto gravido di scelte politiche, alc...